MY FAIR PHARMAKON
2011
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Contramal è un farmaco a base di tramadolo, derivato oppioide, come il metadone. Al contrario di quest’ultimo, esso può essere venduto senza la ricetta speciale per stupefacenti, ma con prescrizione medica non ripetibile. Non è solo un semplice agonista oppioide, ma induce l’aumento del rilascio di serotonina: è, in altre parole, un sostituto chimico del sesso, dell’innamoramento, del buon cibo, dell’esercizio fisico. Contramal viene utilizzato per combattere gli stati dolorosi acuti e cronici, e i dolori indotti da interventi chirurgici e diagnostici particolarmente difficili.
Dal gusto più dolce delle sorelle morfina e codeina, Contramal può avere effetti collaterali pari agli stupefacenti: nausea, vomito, eccesso di sudorazione, stitichezza, sonnolenza, tremori nervosi da astinenza, allucinazioni, fino a provocare crisi simili a quelle epilettiche, alterazioni della personalità e della percezione cognitiva.
“My fair pharmakon” mette in scena un numero via via sempre crescente nel tempo di flaconi di Contramal, disposti in un cerchio di fedeltà assoluta, una fede nuziale inscindibile e sacra che lega la persona malata al proprio farmaco salvifico. Un farmaco che è allo stesso tempo rimedio e veleno, cura e droga, palliativo e peggiorativo di una condizione di schiavitù cronica ai dettami della chimica.
Un circuito tra la dipendenza e la cura che non è possibile creare né spezzare se non con il beneplacito dell’autorità, che sancisce la legittimità della condizione di malato, di malata, di sposo, di sposa. I flaconi sono parte integrante della vita di una persona malata: con l’etichetta usurata, i beccucci staccati, alcune gocce residue di sostanza, essi l’hanno accompagnata in ogni istante della sua vita, per essere sostituiti, una volta terminati, da nuovi flaconi.
Un circolo che si autoalimenta in eterno rinnovamento, poiché se il flacone ha una fine, la sostanza non può mai essere accantonata e il malato non può mai essere solo: un vero amore che dura per sempre, finché morte non li separi.
Ed ecco quindi che il numero dei flaconi messi in scena aumenta, con il passare del tempo, seguendo le curve del miglioramento e del peggioramento della cronicità. Un cerchio che parte da una base definita, 20 flaconi il primo giorno, e che arriverà, nell’arco del mese d’esposizione, a ingrandirsi forse al punto tale da non poter più essere contenuta nello spazio preventivamente predisposto, e che, una volta terminata la mostra, continuerà ancora ad ingrandirsi, nel privato, per essere poi esposta, la volta successiva, con una base di partenza infinitamente più grande.
Il titolo prende spunto dal famoso musical del 1956 di Alan Jay Lerner “My fair lady” la cui trama ruota attorno al debutto in società della protagonista, attraverso un percorso di preparazione che la porterà ad essere finalmente accolta dall’alta società. In “My fair pharmakon”, la terapia farmacologica, solitamente relegata all’intimo, al domestico, al privato, viene non soltanto esplicitata in pubblico, resa nota a conosciuti e sconosiuti, privandosi del potere della mediazione della spiegazione, della parola, delle azioni di formalità, ma anche tramutata in opera d’arte: un atto di sovversione della divisione tra pubblico e privato, una liberazione potente e destinata a propagarsi all’infinito nello spazio e nel tempo.
“My fair pharmakon” è attualmente in esposizione a Moena, presso la Galleria Ufofabrik.